«Qualche tempo fa, mentre scrivevo la tesi di laurea, cercavo una citazione d’effetto con la quale abbellire il terzo capitolo. Cercavo una frase che descrivesse il meglio possibile il sentimento contraddittorio che i calabresi provano verso la Calabria e che, inevitabilmente, rendesse giustizia a quello che provo io. Internet mi ha così condotta verso “I fratelli Rupe”, primo romanzo della trilogia “Storia dei fratelli Rupe” di Leonida Répaci, scrittore calabrese del Novecento.

Non vi tedierò con una critica impegnata del romanzo (che comunque mi auguro venga letto), ma mi limiterò a condividere con voi una frase che mi colpì particolarmente. Répaci, nel raccontare il ritorno di uno dei fratelli dal Nord Italia, dice ad un tratto: “La terra natale non fa a Tiziano Rupe grandi feste nel riceverlo, ché non è del vero amore la smanceria. Anzi l’incontro tra lui, figliol prodigo, e la Calabria, ha sempre una certa aria d’imbarazzo, dovuta al fatto che egli non sa giustificare dinanzi a lei […] la sua lontananza, e lei non vuole confessargli di soffrire per il suo abbandono”. La Calabria è una madre esigente. E il mio rapporto con la Calabria, con Corigliano in particolare, è di conseguenza complicato, come quello di tutti gli altri figli di questa terra strana. Sono cresciuta qui, sono andata a scuola qui, tutte le persone che amo di più al mondo vivono qui o sono di qui. Questa è casa mia. Eppure sono anni che non mi sento a casa. Cammino per strade che un tempo percorrevo tutti i giorni e che oggi non mi sembrano più familiari, vedo amici e amiche d’infanzia trasformarsi in persone diverse da me, e vedo adulti trasformarsi in biliosi individui incattiviti. Su tutti i luoghi e conoscenze della mia infanzia e della adolescenza è scesa una coltre fumosa, angosciante, fa sembrare tutto più nero, più squallido, più cattivo. Fa parte delle crescita, credo, fa parte della vita, che man mano ti fa vedere le cose come sono realmente. Mi chiedo comunque da dove venga tutto questo odio, signori miei. Più che odio, direi aggressività nei confronti di coloro i quali, come me, vivono la loro vita al di là di Corigliano, non tanto per scelta, quanto per necessità. Mi chiedo da dove venga tutto quest’astio nei confronti della mia generazione.

 

Un tema originale, non c’è che dire, l’opposizione atavica tra vecchi e giovani, molto attuale, ma che comunque non aiuta a comprendere il perché alcuni uomini siano così duri nei confronti dei loro figli. Perché siamo i vostri figli, sangue del vostro sangue. Cresciuti da voi, “mullichell’ mullichell’”. Eppure ci accusate di essere viziati, idealisti, distratti, scapestrati, superficiali, litigiosi. Ci accusate di non pensare a voi, di non pensare al futuro, di pensarci troppo, non studiare abbastanza, di studiare troppo, di lavorare troppo, di non lavorare abbastanza, di divertirci troppo, di non divertirci abbastanza. Ci crescete nel culto della terra spronandoci a tornare e aiutare la Calabria a rialzarsi, perché i giovani devono tornare, se no è tutto morto, ma quando torniamo e tentiamo di collaborate ci cacciate, ci allontanate, ‘sti giovani d’oggi, cchij minchia ne sanno? Parlano ad occhio, festeggiano sempre. Mi pare evidente che imputatiate alla nostra poca esperienza della vita comune e alla nostra giovinezza l’origine di ogni male attuale.

 

Non sapete quanto vorrei essere davvero la causa di ogni vostro male. Non avete neanche idea di quanto vorrei potermi attribuire la responsabilità diretta e indiretta della piega disastrosa che hanno preso le vostre vite. Mi piacerebbe poter essere stata io una delle tante persone che, per più di vent’anni, ha votato sempre il solito gruppo di politici disonesti aspettandosi stupidamente che le cose cambiassero o, peggio, ricevendo in cambio favori personali, vincite di gare d’appalto e posti in Comune per il parente nei guai. Vorrei tanto essere tra quella maggioranza di persone che nel 2009 votarono Pasqualina Straface, così come vorrei essere tra quello che, dopo 5 anni dallo scioglimento della giunta comunale per infiltrazioni mafiose, votarono Giuseppe Geraci, riconsegnando puntualmente la città nelle mani di chi non ha a cuore il bene comune, ma solo il proprio.

 

Vorrei poter aggiungere tutte queste responsabilità alla già lunga lista di cose di cui la mia generazione dovrà occuparsi; per dirne alcune, risolvere la crisi economica mondiale, impedire lo scioglimento dei ghiacciai e l’estinzione dell’umanità, fermare il genocidio dei migranti nel Mediterraneo, eccetera. Sarei felice di potervi garantire questa comoda amnistia morale, di garantirvi il diritto all’oblio. Vorrei, come una moderna Enea, portare sulle spalle voi vecchi Anchise, trascinandovi via da Troia in fiamme. Vorrei, giuro che vorrei, ma non posso. Sfortunatamente sono nata solo 24 anni fa, quando la mafia già c’era, quando la corruzione già c’era, quando già i mafiosi si ammazzavano a vicenda nelle loro purghe intestine, trascinando insieme a loro nella morte civili onesti, magistrati, poliziotti e giornalisti. Non posso fare finta che il mondo che mi avete consegnato non mi faccia schifo. E non posso rimanere indifferente quando, non paghi del mare di feci liquide nel quale ci avete consapevolmente trascinati, contribuite insistenti e visceralmente coinvolti all’elogio commosso di uno ’ndranghetista, con la saccente miopia di chi, evidentemente, non sa di cosa parla.

 

 

Perché solo un gretto ignorante dipingerebbe i mafiosi come dei moderni Robin Hood, che vivono di stenti e rubano ai ricchi per dare ai poveri, mentre i re e le regine della piana di Sibari vivono nello sfarzo. Soltanto un classista della peggior specie insinuerebbe che soltanto i poveri sono mafiosi, perché anche i bambini sanno che la mafia, che vive in ville circondate da alte mure di cinta, nasconde il suo sfarzo agli occhi dei più per portare avanti la crudele menzogna di essere come tutti noi. Per poter mantenere un vincolo di sangue con questa terra e con chi la abita, le antiche dinastie e i loro generali offrono un’alternativa agli abitanti di un territorio disastrato, avvicinano i giovani abbandonati da questo Stato immondo e colluso, facendo credere loro di poter vivere dignitosamente all’interno di un sistema dal quale, come dice spesso Roberto Saviano, si esce solo in due modi: col carcere o con la morte. Un vincolo di sangue, questo, che si fonda sulla falsa promessa della presunta umanità dei mafiosi, dipinti come padri di famiglia e amanti generosi, o come poveri esseri umani che non avevano altra scelta, e non come criminali. Una bugia crudele, condivisa persino da chi, in un miscuglio di inconsapevolezza e rassegnazione, non si ritiene parte della classe dirigente solo perché non è un capo d’azienda, e che con il suo giornale on line credeva di rappresentare, illudendosi, una valida alternativa intellettuale al degrado culturale della zona. Ma non è così. Tutti quanti, nessuno escluso, abbiamo una scelta. Una scelta di dignità, di integrità e di fedeltà alle leggi morali assolute a cui fare riferimento quando quelle degli uomini falliscono. Trovo incredibile dover spiegare queste cose a chi ha più anni di me.

 

Osservo incredula la cecità con la quale la classe dirigente italiana, calabrese, coriglianese, si avvia serenamente verso il baratro. A noi giovani è lasciato il compito più arduo: rimanere spettatori di una tragicommedia della quale voi tutti, rappresentanti dello status quo, siete al contempo registi, sceneggiatori e attori. Siamo costretti ad osservarvi da lontano, chiusi nel vostro piccolo labirinto come topi ammaestrati, votati alla sopravvivenza e non alla vita, all’autoconservazione e non al cambiamento. E noi qui, comparse impotenti del vostro delirio, perché non ci permettete di aiutarvi, e di aiutarci, perché, in cuor vostro, forse non credete di meritarlo. Vietato parlare, vietato commentare, vietato discutere, vietato lamentarsi. E intanto Troia brucia. Elena De Gaudio»

 

Una lettera certamente appassionata e contenente diverse verità, nostra gentile lettrice, ma al contempo estremamente prolissa e carica di quelle citazioni che troppo spesso assurgono a luoghi comuni, o luoghi comunisti, questi ultimi ancora più spesso meramente da salotto ed inutili alla causa. Le incomprensioni tra vecchie e nuove generazioni, poi, sono una storia vecchia come il cucco. Che ogni generazione ha vissuto. Proprio nessuna novità: quale tema originale?! Nel merito, mi permetto solo una raccomandazione: bando al pessimismo cosmico e lottare. Sempre. Ad ogni età. Per una società libera da ogni catena e da ogni male, per l’equità sociale, per un progresso economico e sociale vero, per un progresso economico e sociale sano. E per tanto altro ancora… Con amicizia.

Fabio Buonofiglio, Direttore responsabile AltrePagine.it

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