Oggi, dopo appena due anni e nove mesi, il questore di Cosenza Luigi Liguori (foto) ha lasciato il proprio ufficio. Ultimo giorno alla guida della Polizia di Stato cosentina per lui che è nativo proprio del Cosentino, di Corigliano Calabro, com’è noto. Un trasferimento prematuro il suo, tanto inaspettato quanto meritato, che lo riporta in quel di Bari dove alla guida della Squadra mobile non lasciò per nulla un buon ricordo di sé quando, nel 2008, la cronaca nazionale venne investita del caso di Ciccio e Tore – i tristemente famosi gemellini scomparsi di Gravina di Puglia – che ne provocò la rimozione attraverso la “promozione” alla guida, sempre a Bari, della Polizia di frontiera Adriatica. Ora invece è destinato ad andare a guidare la Polizia ferroviaria barese.

Con una stringatissima nota è stato lo stesso dottor Liguori nei giorni scorsi a dare la notizia: «Cari colleghi, carissimi cittadini, nel momento in cui sto per lasciare la bellissima città e provincia di Cosenza, rivolgo un saluto affettuoso a tutti e ringrazio chi mi ha dato l’opportunità di essere al servizio di questi “Agenti” e di tutta la comunità. Spero, con la mia condotta pubblica e privata di lasciare un buon ricordo ed un patrimonio di prassi amministrativa che ha sempre, dico sempre ed a qualsiasi costo, anteposto gli interessi generali a quelli singoli, sia nella conduzione dell’Ufficio nel delicato settore delle autorizzazioni e licenze di polizia che nella gestione tecnica dell’ordine pubblico. Ai miei Funzionari ed a tutti gli Operatori di Polizia l’abbraccio ideale e l’invito a continuare a migliorare costantemente l’efficienza dei servizi nell’esclusivo interesse di tutti i cittadini». Una nota che – ovviamente – non spiega nulla del repentino avvicendamento alla guida della Questura, che passa al dirigente superiore Giancarlo Conticchio.

Il dottor Liguori – persona onesta e perbene – paga la scarsa efficienza della Questura cosentina e l’inefficacia della sua azione contro il crimine. Vediamone qualche esempio che riguarda molto da vicino il nostro comprensorio della Sibaritide.

RAPINE E VIOLENZE: LA FIGURACCIA DELLA POLIZIA. Nella serata del 10 dicembre 2014 gli agenti della Squadra mobile della Questura cosentina e del Commissariato di Rossano arrestarono Moustapha Mbaye, 33enne di nazionalità senegalese, con l’accusa d’avere rapinato, nei pressi dell’incrocio di contrada Insiti di Corigliano Calabro, una giovane infermiera coriglianese che rincasava dal proprio servizio presso il presidio ospedaliero di Rossano. E non solo. La mattina dopo l’arresto in Questura a Cosenza si tenne nientepocodimenochè una conferenza stampa durante la quale il vicequestore aggiunto alla guida del Commissariato rossanese, Raffaele De Marco, ed il suo omologo che dirige la Squadra mobile, Giuseppe Zanfini, spiegarono che «nella zona di Corigliano Calabro negli ultimi tempi ci sono stati molti casi del genere e spesso le vittime, sotto la minaccia di coltelli o pistole, sono state portate in zone appartate e poi derubate. E in una circostanza una donna ha riferito d’essere stata anche violentata; stiamo accertando se il giovane sia anche l’autore d’altre rapine» conclusero. Due giorni dopo il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Castrovillari, Anna Maria Grimaldi, dispose l’immediato rilascio del giovane senegalese. Già. Perché non era affatto lui il rapinatore seriale che da settimane stava terrorizzando gli automobilisti di Corigliano Calabro in lungo e in largo sull’intero territorio comunale. Eppure i dirigenti di Polizia se ne dissero convinti durante quella conferenza stampa. Il giudice non convalidò l’arresto dell’africano per la rapina (ma vi fu mai quella rapina?!) di qualche ora prima ai danni dell’infermiera 29enne M.M. residente nella contrada coriglianese di Ogliastretti. Sì, perché oltre al riconoscimento da parte della presunta vittima, da parte dei poliziotti non vi fu il ritrovamento della refurtiva oggetto della rapina, vale a dire la borsetta e gli oggetti in essa contenuti, né all’interno della casa dove l’immigrato aveva illegalmente trovato dimora né negli agrumeti circostanti quella stessa casa di contrada Cava Farinara, a un tiro di schioppo dall’incrocio di contrada Insiti con la Statale 106. Nulla di nulla se s’escludeva il riconoscimento dell’uomo come suo aggressore da parte della vittima, la quale in precedenza ne aveva descritto il vestiario offrendone corrispondenza ai riscontri da parte della Polizia. Moustapha Mbaye non era affatto il rapinatore seriale che aveva agito in modo tracotante per svariate settimane, in un caso pure con una violenza carnale, perché a scagionarlo senza ombra di dubbio vi furono le comparazioni del suo Dna con quello delle tracce lasciate dal rapinatore – quello vero – che venne assicurato alla giustizia poco tempo dopo da parte dei carabinieri della Compagnia di Corigliano Calabro. Perché il rapinatore seriale era un cittadino sì africano, ma d’origine maghrebina come tutte le vittime avevano denunciato, marocchino per l’esattezza e quindi di colore molto chiaro rispetto al nero senegalese trovato dagli uomini dell’ex questore Liguori. E per la Polizia fu una figuraccia brutta assai.

TRE MORTI AMMAZZATI CHE SI POTEVANO EVITARE. Molto più complessi – oltrechè tragici – i fatti accaduti tra Rende e San Lorenzo del Vallo tra la fine d’aprile e la fine d’ottobre del 2016. Con tre morti ammazzati che si sarebbero potuti evitare. C’era un grosso arsenale d’armi appartenente ad una potente cosca cosentina di ‘ndrangheta in un garage nella zona di Quattromiglia, a Rende. Un fresco collaboratore di giustizia l’aveva “soffiato” alla Polizia. Le indagini condussero a tale Francesco Attanasio, di 34 anni, il quale aveva preso in locazione quel garage da una signora residente a Crotone che ne era la proprietaria. Gli uomini della Questura, scoperta l’identità d’Attanasio, lo contattarono per “spiegazioni”. E ciò avvenne prima del 26 aprile, giorno in cui Attanasio ucciderà il 31enne Damiano Galizia e giorno in cui la Questura ha sempre sostenuto d’aver appreso del garage e scoperto l’arsenale dopo una fantomatica telefonata d’Attanasio prima dell’omicidio. Quella telefonata era una chiacchiera della Questura per coprire il rapporto pregresso tra Attanasio e gl’investigatori e per proteggere essa stessa. Attanasio convocato in Questura decise di vuotare il sacco. Raccontò tutto: d’un cosistente prestito di denaro ricevuto da Galizia, della presa il locazione del garage e di tutti i “favori” che era stato costretto a fare sotto minaccia a Galizia. Disse agl’investigatori che Galizia era pericoloso. Temeva per la sua incolumità e per quella della sua famiglia. Ma agl’investigatori di proteggere lui ed i suoi familiari non passò neppure per l’anticamera dei cervelli. A loro interessava solo l’indagine in corso sull’arsenale della ‘ndrangheta, il cui vero custode era Galizia. Che volevano prendere con le mani nel sacco e scoprire se oltre a lui altri avevano accesso all’arsenale. Utilizzarono perciò Attanasio come “esca”, senza predisporre una sua adeguata “copertura”. Sapevano che Attanasio, nonostante la frequentazione con Galizia, non era organico ad organizzazioni criminali. Sostanzialmente era un bravo ragazzo. Solo che da un po’ di tempo amava la bella vita, gli piaceva giocare, uscire, spendere soldi. E lo faceva coi soldi di Galizia, al quale stava bene avere una persona completamente assoggettata al suo volere. Attanasio era perciò la vittima giusta. Già altre volte Galizia l’aveva utilizzato e sapeva che era manipolabile. Che aveva paura, che lo temeva. Dopo essere stato ascoltato in Questura, Attanasio restò in contatto con un ispettore al quale doveva fornire “dettagli” utili su Galizia e le sue continue richieste. Gl’investigatori non presero sul serio le parole d’Attanasio quando parlò della pericolosità di Galizia. Tant’è che lo lasciarono andare tranquillamente all’appuntamento del 26 aprile con Galizia, per giunta armato. Perché gli investigatori sapevano benissimo che quel giorno Attanasio doveva incontrare Galizia. E se vi fu una telefonata tra Attanasio e la Questura, fu quella in cui Attanasio comunicò dell’appuntamento con Galizia, non certo quella della chiacchiera che comunicava dalla sera alla mattina dell’arsenale nel garage. V’era la questione del prestito da chiarire tra Attanasio e Galizia, ma principalmente Galizia aveva bisogno d’un altro nascondiglio per l’arsenale. E l’appuntamento serviva per far visita al nuovo appartamento che Attanasio gli aveva trovato, in contrada Dattoli, sempre a Rende. È questo ciò che premeva principalmente a Galizia. Attanasio non rivelò d’essere armato all’ispettore, col quale comunicava telefonicamente. Aveva paura d’una reazione di Galizia per via del prestito e di non essere in grado di gestire una sua eventuale violenta reazione. Si tutelava. Gl’investigatori, al contrario, erano tranquilli che a quell’appuntamento tutto filasse liscio. Attanasio aveva il compito di fargli vedere l’appartamento, consegnargli le chiavi e sganciarsi. Qualcuno degl’investigatori gli aveva suggerito una storia da raccontare a Galizia in merito al prestito: doveva dirgli che da lì a qualche giorno sarebbe stato tutto risolto. Aspettava del denaro da una persona che aveva già effettuato un bonifico in suo favore e bisognava soltanto aspettare i tempi tecnici bancari. Gl’investigatori pensavano che il trucco del bonifico funzionasse e che Galizia di fronte a questo si tranquillizzasse concedendo altri giorni ad Attanasio. Gl’investigatori avevano bisogno di prenderlo in castagna, perché di Galizia fino a quel momento avevano solo la “testimonianza” d’Attanasio che diceva d’avere consegnato a lui le chiavi del garage, ma non avevano nessuna foto – nonostante l’appostamento dell’arsenale – che l’immortalasse mentre apriva il garage. La richiesta di Galizia ad Attanasio di trovargli un nuovo appartamento era l’occasione che gl’investigatori aspettavano per coglierlo sul fatto mentre spostava l’arsenale. Pensavano d’avere tutto sotto controllo, ma qualcosa andò storto ed Attanasio sparò a morte Galizia proprio sulle scale dell’appartamento di contrada Dattoli. Preso dal panico, Attanasio decise di tenere nascosto il più possibile anche all’ispettore l’omicidio. Lo chiamò attorno alle 19,30 – ad omicidio da poco avvenuto – per dirgli che Galizia aveva scoperto tutto, che aveva capito che il garage era “attenzionato” e che la Questura era sulle sue tracce. Che l’aveva picchiato accusandolo d’essere una “spia” e minacciandolo di fargliela pagare, e che lui era scappato. Conveniva dunque a questo punto sequestrare l’arsenale, per non correre rischi e anche perchè oramai l’appostamento non aveva più senso. Ecco perchè intervennero nella tarda serata: perchè l’appresero tardi e non alle 17 con la finta telefonata. Attanasio riuscì ad andare avanti con questa scusa per quasi 48 ore. La Polizia ricercò attivamente Galizia ma non lo trovò. Galizia era scappato, era in fuga, come disse Attanasio, e questo è quello che pensava il questore Liguori: la mattina dopo, durante la conferenza stampa, non sapeva che Galizia era morto. Sapeva che i suoi uomini lo stavano cercando ma non lo trovavano. Fin quando a qualcuno non venne in mente di dare anche uno sguardo all’appartamento di contrada Dattoli. E la mattina del 28 aprile trovarorono il cadavere. Ma non potevano dirlo. Non potevano rivelarlo subito perché altrimenti sarebbe venuta fuori tutta quell’“operazione” gestita malissimo e che aveva portato ad un omicidio. Attanasio nel frattempo era fuggito a Sorianello, facendo perdere le proprie tracce pure alla Polizia. Il questore Liguori, appreso del fallimento dell’operazione dove c’era scappato anche il morto, la mattina del 28 ordinò all’ispettore di contattare Attanasio a tutti i costi. L’ispettore contattò Attanasio e gli disse che sapevano tutto, che avevano trovato il cadavere di Galizia e che doveva costituirsi subito. Cercò di convincerlo dicendogli che le cose si potevano aggiustare. Fin quando non si fosse consegnato non potevano fare uscire fuori il cadavere. Avevano bisogno di concordare una versione con Attanasio. I poliziotti avevano bisogno che dicesse che loro s’erano sentiti una prima e sola volta: con la telefonata del 26 aprile alle 17. Che prima non s’erano mai conosciuti. Che non doveva parlare dei contatti con l’ispettore con nessuno. E loro gli avrebbero dato una mano a venirne fuori. La versione ufficiale è questa (è ciò che disse Attanasio appena costituitosi): Attanasio sotto pressione per il prestito decise di denunciare di testa sua Galizia per toglierselo di torno. E siccome sapeva dell’esistenza del garage con l’arsenale, lo spifferò alla Questura, ma solo ed unicamente il 26 aprile alle 17 con una telefonata. Così la Questura apprese dell’omicidio Galizia soltanto alle prime ore del 2 maggio, cioè non appena Attanasio si sedette negli uffici della Questura. Ma in questa storia c’è scappato non soltanto il primo morto. Sì, perché la storia è tragicamente continuata, qualche mese dopo. Con un altro – duplice – omicidio. Quello di Edda Costabile, di 77 anni, madre d’Attanasio, e della figlia Ida Maria, di 52, sorella d’Attanasio. Una terribile duplice vendetta consumata a colpi di pistola nella mattinata domenicale del 30 ottobre all’interno del cimitero di San Lorenzo del Vallo, il paese delle famiglie Attanasio e Galizia.

Quanto accaduto a queste latitudini non c’inibisce né c’impedisce d’augurare sinceramente all’ex questore Liguori – lo ribadiamo, persona perbene – il meglio per il suo nuovo incarico alla Polfer di Bari.

 

 

Di admin

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